lunedì 16 febbraio 2015

Museo della fotografia. Presentazione. La caverna di Platone




Madame Lerroux, elaborazione fotografica di Stefano Viaggio, febbraio 2015

Il conflitto tra apparenza e conoscenza è dentro la storia della fotografia. Ritenuta, nei primi cinquant'anni della sua storia, la più esatta riproduzione della realtà e per questo rigettata da intellettuali come Baudelaire in nome della contrapposizione tra la sensibilità per la  bellezza riservata a pochi e la volgarità della società di massa, la fotografia è considerata oggi come qualcosa di non facilmente decifrabile. Che cos'è il volto di un uomo o di una donna ritratto in una fotografia, se non l'ombra di un momento nel passaggio reale di questa persona lungo gli anni della sua vita, dalla nascita alla morte? Cosa è accaduto, accade o accadrà in un paesaggio fotografato in una bella giornata di sole? Quale archetipo evoca il particolare di un oggetto di uso comune? Che idea suggerisce un segno tracciato su un muro o lo strappo di più manifesti incollati su una bacheca nel corso del tempo?
Il processo fotografico appare misterioso e di difficile comprensione alla massa di coloro che abitualmente fotografano e anche l'introduzione delle fotocamere digitali non ha aiutato la conoscenza di ciò che significa quella "camera obscura" che affascinò coloro che cercarono di carpire un'immagine del reale con il solo aiuto della luce naturale. Questa  successioni di luoghi bui (l'interno della fotocamera e della stanza in cui si sviluppano e si stampano le copie positive) ha suggerito ad alcuni studiosi di proporre come prima riflessione sulla fotografia, il famoso mito della caverna di Platone di cui presentiamo il testo e che evoca il perenne conflitto tra l'apparenza dell'ombra e la faticosa conoscenza del reale.

da L'Illustrazione popolare, 18176

da Repubblica di Platone [dialogo tra Socrate e Glaucone]
1 [514 a]– In séguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e mancanza di educazione, a un’immagine come questa. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. – Vedo, rispose. – Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti [c] di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre [515 a] figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono. – Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte? – E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il  capo per tutta la vita? – E per gli oggetti trasportati non è lo stesso? – Sicuramente. – Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni? – Per forza. – E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa? – Io no, per Zeus!, [c] rispose. – Per tali persone insomma, feci io, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali. – Per forza, ammise. –

Da L'Illustrazione Popolare 1876

Le ombre dei burattini e l'artificio dei burattinai, i giochi con la luce che proietta sui muri ombre misteriose divennero veri e propri spettacoli che si organizzavano i locali pubblici e privati, prima (ma anche dopo) che Niepce e Daguerre  mostrassero al mondo che era possibile realizzare un'immagine con uno strumento meccanico. Il sogno era trasformare  quell'ombra così lungamente studiata da alchimisti, artisti e intellettuali in un oggetto, rappresentato materialmente dalla lastra fotografica che riproduceva un luogo, un monumento, il ritratto di una persona. Ma la conoscenza del reale è difficile: come nella storia della vita tentativi e prove fallite hanno accompagnato l'evoluzione della specie, così la strada della conoscenza si presenta ardua da percorrere. Platone immagina che un prigioniero della caverna venga liberato e improvvisamente portato alla luce e all'aria aperta.
Da un album svizzero anonimo (denominato verde, dal colore della copertina), una fotografia probabilmente acquistata durante una vacanza dei proprietari nei pressi del Lago di Lucerna. Anni 1900-1910, stampa al bromuro d'argento: non ci sono indicazioni sull'autore o sulla società distributrice. In sintonia con il mito del progresso, molto forte all'inizio del XX° secolo, la luce della lanterna sconfigge l'oscurità del mondo sotterraneo e, attraverso la fotografia, rivela luoghi nascosti e inesplorati.
Da Repubblica di Platone
– Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza. Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che così facendo provasse dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di [d] scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio? e se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso? – Certo, rispose. 2 [e] – E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male agli occhi e non fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? e non li giudicherebbe realmente più chiari di quelli che gli fossero mostrati? – È così, rispose. – Se poi, continuai, lo si trascinasse via di lí a forza, su per l’ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non s’irriterebbe [516 a] di essere trascinato? E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere. – Non potrebbe, certo, rispose, almeno all’improvviso. – Dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti stessi; da questi poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, [b] potrà contemplare di notte i corpi celesti e il cielo stesso più facilmente che durante il giorno il sole e la luce del sole. – Come no? – Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria. – Per forza, disse. – Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere [c] causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano. – È chiaro, rispose, che con simili esperienze concluderà così. – E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro? – Certo. – Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai primi riservati a chi fosse più acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e più [d] rammentasse quanti ne solevano sfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il successivo, credi che li ambirebbe e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? o che si troverebbe nella condizione detta da Omero e preferirebbe “altrui per salario servir da contadino, uomo sia pur senza sostanza”, e patire di tutto piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel modo? – Così penso anch’io, rispose; [e] accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel modo. – Rifletti ora anche su quest’altro punto, feci io. Se il nostro uomo ridiscendesse e si rimettesse a sedere sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole? – Sì, certo, rispose. – E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima [517 a] che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo? – Certamente, rispose. [...]
da Repubblica di Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari, 1967, pagg. 339-342, il testo è tratto dal sito: http://www.liceomanara.it/sites/default/files/programmi1/antologia_Platone_miti.pdf
da L'Illustrazione popolare, 1876
La posa fotografica di lunga durata o della frazione di un secondo presuppone un cambiamento nello stato d'animo di chi fotografa e di chi è fotografato. E' come una sospensione che coinvolge non solo il corpo. Nel momento in cui si è fotografati qualcosa passa nella nostra testa, insieme a tanti pensieri può accadere che ne venga uno: dove finirà questa fotografia? E insieme a questo  è possibile un altro: come sarò in questa fotografia? E poi ancora: che uso faranno della mia immagine? Chi fotografa non può fare a meno di subire un'altra emozione: la conoscenza e l'esplorazione, anche di un volto amato o di un luogo assolutamente noto. Ogni fotogramma è diverso da quello precedente o seguente. Turbamento e conoscenza si unificano nell'atto fotografico ed è per questo che la fotografia è affascinante. Ci sono persone che non amano essere fotografate o fotografare, è come se il dover violare o attraversare per un attimo la caverna oscura di Platone le intimorisse. Nelle stanze immaginarie di questo museo immaginario, cercheremo di dare qualche risposta alle domande che abbiamo appena posto, forse anche in modo arbitrario.

La prima stanza in cui entreremo nel prossimo articolo è quella della "vita e della morte".

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